La vita di Dalí è stata caratterizzata da molti contrasti con chi tentava di imporgli canoni estetici o morali. Basti pensare che nel 1926, quando aveva solo ventidue anni, venne espulso dall’Accademia dove studiava perché sosteneva che nessuno fosse sufficientemente competente per poter esaminare i suoi dipinti.
Nel 1929 fu invece il padre a cacciarlo di casa per questioni morali legate alla rappresentazione del Sacro Cuore di Gesù Cristo. Il padre lo accusò duramente e lo mise al corrente della decisione di diseredarlo. Anni dopo Dalì raccontò di aver risposto al genitore mettendogli in mano un profilattico pieno del proprio seme e di avergli assicurato che “ora non ti devo più nulla”.
Lo stesso dicasi con il movimento surrealista, dal quale venne espulso nel 1934. Come reazione Dalí affermò: “Il surrealismo sono io” e si presentò all’Esposizione Internazionale Surrealista del 1936 a Londra vestito da palombaro.
Col passare degli anni la sua furia contro le istituzioni non si placò, ma trovò sfoghi di vario genere, talvolta semplici arlecchinate o trovate pubblicitarie, altre volte vere e proprie sperimentazioni estetiche. Una delle sperimentazioni più incredibili a cui si dedicò è quella dell’arte fucilata che aprì la strada allo “sferismo”, che portò alla realizzazione de La Pietà dell’Apocalisse nel 1960, una enorme lastra di bronzo che venne venduta per un milione di dollari dell’epoca. Per Dalì quest’opera doveva essere in grado di rappresentare il balenio apocalittico. Lavorò con l’accetta una lastra di cera, dove lasciò al suo interno pezzi di torta di miele, un’agata, una conchiglia, forchette e coltelli (secondo Dalì l’apocalisse poteva essere mangiata) e ovviamente sparò chiodi con la carabina. Il tutto richiamava una sua vecchia ossessione giovanile che consisteva nel riuscire a dipingere un quadro senza mai toccarlo con il pennello e mantenendosi a una distanza superiore di un metro. In realtà quest’opera rappresenta l’apice di un percorso iniziato nel 1956, quando gli vennero commissionate delle litografie che avrebbero dovuto rappresentare il Don Chisciotte. L’unico problema era che Dalì in quel momento per motivi estetici, morali e filosofici era contrario alle litografie.
Dalí e Don Chisciotte
Dalì racconta che gli venne un’idea angelica che gli permise di vedere come in un lampo la realizzazione di tutto il suo Don Chisciotte. Così rielaborò l’idea giovanile di un’arte realizzata senza il pennello e mantenendo una distanza di sicurezza e che rappresentava appunto l’arte fucilata. Questa tecnica se non poteva essere realizzata sulla carta o sulla tela, trovava la sua possibilità proprio nella litografia, dato che il supporto sarebbe stato in grado di reggere all’urto di una palla di moschetto sparata da una distanza più o meno ravvicinata. Per la realizzazione di questa serie il suo amico Georges Mathieu gli regalò un archibugio del XV secolo intarsiato d’avorio e il 6 novembre del 1956 in mezzo a cento pecore, come ci racconta Dalì, sparò la prima palla al mondo piena di inchiostro litografico. La palla esplosiva di colore fece nascere lo “sferismo”. Le sperimentazioni non si arrestarono e vennero ripetute più volte anche davanti al pubblico: una volta a Montmartre realizzò un Don Chisciotte “davanti a una folla entusiasta e circondato da ottanta giovani donne sull’orlo dell’estasi”. A New York gli studi televisivi se lo contesero per riprenderlo nel suo furore artistico fucilato e Dalì iniziò a sognare dove doveva sparare le sue sfere piene di colore: era nei sogni, nell’inconscio che trovava il punto preciso dove puntare il suo archibugio.
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