Quando si parla di Surrealismo, i nomi che vengono fatti sono tendenzialmente i soliti: Breton, Prevert e Luis Aragon in letteratura; Buñuel, Magritte, Man Ray e Dalí in campo artistico. Del resto, la storia delle avanguardie è sempre anche storia dei suoi interpreti, e questo è probabilmente ancor più vero per quella che si rivelò forse la più prolifica avanguardia artistica del Novecento. Il movimento surrealista infatti divenne celebre grazie all’opera di alcuni personaggi particolarmente carismatici. Dovendone citare uno su tutti, sarebbe inevitabile nominare Breton, autore del primo manifesto surrealista, e autorità riconosciuta da tutti come il vero e proprio “papa” del Surrealismo, capace di emettere scomuniche clamorose, come quella rivolta contro Salvador Dalí. «Le surrealisme c’est moi» fu la pacata risposta dell’artista catalano.
A ben vedere, queste prese di posizione così nette avevano grande eco presso i seguaci del movimento surrealista, che si appassionavano alle diatribe tra i membri dell’avanguardia quasi con lo stesso trasporto con cui vi riponevano le proprie speranze. Nell’Europa devastata dalla guerra, il Surrealismo aveva infatti rappresentato un progetto di liberazione, sia sul piano creativo che su quello sociale, mirando a rinnovare il rapporto tra l’individuo e la società, in opposizione alla razionalità borghese. Il movimento guardava a Freud e Marx. Da una parte – come dice il Primo manifesto surrealista – ci «si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale»; dall’altra, l’ipotesi rivoluzionaria marxista è considerata la prospettiva più coerente per giungere a una radicale trasformazione della società.
BOSCH UN SURREALISTA DEL XV SECOLO
Eppure, a ben vedere, un pittore delle Fiandre si era già dedicato, in anticipo di quattro secoli e mezzo su Dalí e Max Ernst, ad esplorare i recessi di quello che solo nel Novecento ci saremmo abituati a chiamare inconscio. Stiamo ovviamente parlando di Hieronymus Bosch. Il suo immaginario visivo varca la porta dell’io e della fantasia, acquisendo una modernità senza eguali.
I suoi dipinti sono una selva, un intreccio animato di figure, ognuna con una storia e un compito che da solo potrebbe già essere il tema di un quadro. Viceversa, si ammassano operosi, in fuga, come vittime di una qualche tortura o come torturatori, assieme a strani marchingegni e attrezzi, dipinti con una cura maniacale nei particolari, una definizione nei dettagli delle espressioni dei volti quasi stucchevole e superflua.
Come certi dipinti surrealisti, nella pittura di Bosch si ritrovano anatomie distorte, rappresentazioni allegoriche, oggetti grotteschi disseminati nelle scene. La sua più celebre opere, il Trittico del Giardino delle delizie è percorsa da un vero e proprio crogiolo di figure maschili e femminili nude, con piante e animali dall’aspetto esotico, impegnati nella ricerca del piacere più sfrenato apertamente e senza vergogna. Tutti gli elementi sono fortemente simbolici, ovunque fissiamo lo sguardo risulta impossibile scorgere manifestazioni della razionalità pittorica tipica dell’età moderna. La sua arte non ha niente a che vedere con la ricerca della perfezione formale e prospettica dei pittori fiamminghi suoi contemporanei. E non fu un caso se nel Primo manifesto surrealista Breton lo riconobbe come il «padre fondatore del Surrealismo» evidenziando forti affinità con la sua opera visionaria e tributando un riconoscimento alla sua grandezza.
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